mercoledì 28 novembre 2007

Le stanze

Gli Azione Non Violenta sperimentano dunque, a Falconara, la loro prima formazione “ufficiale”: marco (io) alla voce, Daniele alla chitarra, Donatella al basso e Marco alla batteria. Inizia così la vera storia degli ANV, fatta non solo di suoni, ma anche di tanto tempo passato insieme. Le stanze (così, semplicemente, chiamavamo il locali per le prove) erano il nostro nuovo ventre materno. Stavamo sempre lì, dopo o nonostante gli impegni scolastici. Fino a notte. Stavamo tra di noi a suonare, cazzeggiare, disegnare volantini per ipotetici concerti o copertine per fanomatiche cassette, poi ascoltavamo un po' di musica o sentivamo gli altri suonarla.
Le stanze erano i locali di un ex-asilo comunale, dismesso da tempo. Cinque locali, un ripostiglio con una cantina dei miracoli e due bagni. La nostra stanza era divisa in due da una parete che si reggeva a malapena, fatta da un'intelaiatura di assi di legno e ricoperta con della gommapiuma, che doveva avere funzione fono-assorbente, ma che – dato che non avevamo soldi per comprare materiali decenti – era talmente sottile che il gruppo che suonava dall'altra parte della palizzata non poteva farlo contemporaneamente a noi, e viceversa.
Al di là della palizzata c'erano i Bastioni Gran Sasso, gruppo rock. Nel senso più tradizionale del termine. Fatto di gente che sapeva suonare e che per questo si vedevano poche volte (per nostra fortuna), forse sì e no una volta alla settimana.
Poi c'era uno stanzone libero, che chiamavamo “sala riunioni”, ma nella quale facemmo sì e no un paio di incontri collettivi. Sicuramente quella fu la stanza dell'addio alle stanze, nella quale si consumò la fine di quell'esperienza incredibile. Ma le storie tristi adesso lasciamole da parte, per ora.
Nello “stanzone” l'assessorato alla cultura mandava periodicamente gruppi e associazioni per verificare la possibilità di utilizzarlo come sede... senza risultati. Nessuno poteva convivere con il frastuono che usciva dalle altre stanze. L'UDI lo tenne per un po', vennero tre-quattro volte, poi abbandonarono il campo alla chetichella lasciando lì anche molto del loro materiale.
La terza stanza era quella degli Ashill Forrest, che suonavano jazz-rock, fusion alla Level 42, che all'epoca era il loro gruppo preferito. Con loro era un continuo sfottersi su temi musicali: noi detestavamo la loro musica, loro non riuscivano neanche a chiamare “musica” ciò che usciva dai nostri amplificatori. Nonostante questi scazzi amichevoli, i rapporti con loro saranno quelli più stretti. Con il tempo noi e loro realizzammo un bel sodalizio amicale, fatto di cene, bevute, gite e quant'altro. Francesco, pazzo per la PFM, suonava la batteria, Vito la chitarra, Giulio (cioè quel Giulio con il quale fondammo i Black Lizards) era il mago del basso, Lorenzo (al quale un giorno dedicherò un post a parte) il sax, Charlet le percussioni. Poi c'era un tastierista di cui non ricordo il nome.
La seconda metà della stanza (questa insonorizzata perfettamente grazie alla sapienza artigianale degli Ashill Forrest e a una maggiore disponibilità economica dei gruppi) era occupata dai “metallari”. Tutti però li chiamavamo “i fjoletti” (che nel nostro dialetto significa “i bambini”) perché era il gruppo più giovane delle stanze. Ixion's Wheel: Andrea alla batteria, Gianluca alla voce, Alessandro al basso e Michele alla chitarra. Anche con loro realizzammo un buon sodalizio, soprattutto con Andrea, studioso di cinema, con il quale organizzeremo successivamente dei cineforum all'avanguardia per l'epoca.
Poi c'era LA CUCINA.

La cucina, le ultime settimane di vita delle stanze


Una stanza con un grande tavolo di legno, un divano con le zecche, una decina di sedie, una cucina con la bombola, un frigorifero, una televisione, una credenza... insomma: una cucina. Quella era la vera sala riunioni. Lì passavamo molto del tempo. Insieme. Affanculo la musica! Non c'erano più divisioni di nessun genere. Chi aveva voglia ci stava. Insieme agli altri. A fare le cose insieme. Anche a fare niente. Ma insieme.
Lì ci facevamo gli spaghetti aglio, olio e peperoncino, bevevamo il vino che portava Francesco: le bottiglie verdi da un litro con il tappo di ferro dorato. Partite a carte. Riunioni tossiche e alcoliche. “Quelli della notte” alla TV, cantando la sigla tutti insieme. La sera poi la cucina si animava di altri personaggi strani, che non avevano niente a che fare con la musica. Animali che di giorno vivevano in piazza e la notte si riuniva con gli altri animali: le talpe cieche delle stanze.

giovedì 18 ottobre 2007

[post-appunti]

Eravamo ribelli? Non lo so. Certo, lo eravamo agli occhi dei più. Ma non so quanto lo fossimo realmente. Quanto riuscissimo effettivamente ad esserlo. La sera tornavamo a casa e tutti trovavano accoglienza. Certo, spesso problematica. Altrove era diverso. Penso a Milano, a Bologna, a Roma. Da noi era così. Più o meno.
Intimamente volevamo cambiare il mondo.
Nella maggior parte dei casi il mondo ha cambiato noi.
Ma in chi ha vissuto quelle esperienze rimane una scintilla nello sguardo, che difficilmente si può sopire. È per questo che mi sono deciso ad aprire questo blog. Non per compiere l'ennesimo tentativo di autocelebrazione.
Piuttosto perché se essere incazzati a sedici anni è una cosa normale, un diritto, esserlo a oltre quaranta mi sembra sia un dovere, soprattutto per chi ha mantenuto qualcosa di quella scintilla nello sguardo.
Coloro che ho incontrato lungo questo cammino (che non è fatto di soli punks, ma di altre anime, di tutti i generi, che di seguito incontreremo), lento ma inesorabile come quello di una lumaca appunto, hanno condiviso con me le loro aspirazioni, i loro desideri di un mondo migliore pensando che, primo o poi, qualcuno ci desse ragione. Che qualcuno un giorno ci dicesse: «era quello che stavamo aspettando, non si poteva più andare avanti così!». Ma non nelle grandi cose. Nelle piccole. Nelle microscopiche. Nel rispetto, nel riconoscimento dell’altro. Nella non-competizione. Nella correttezza dei rapporti. Nella sincerità. E invece no.
Il mondo non stava aspettando noi. Il mondo è degli altri.
Per questo, passati i quarant’anni, uno può anche tornare ad incazzarsi.
E stavolta definitivamente.

Ieri ho recuperato dal mio archivio le fanzine punk degli anni 80 e ho trovato anche la prima esperienza di rete alternativa antagonista che forse si sia realizzata in italia. Era PUNKAMINAZIONE, il tentativo di realizzare uno strumento di collegamento fra le diverse realtà sparse sul territorio, molto prima di internet. Ho i primi due numeri. Sfogliando con gusto quelle pagine ho trovato un articolo della “redazione anconetana” sul quale tornerò tra un po’. Dico sin da subito che mi ha lasciato molto amaro in bocca. È anche in relazione a ciò che ho inserito queste poche righe.

domenica 14 ottobre 2007

un batterista di pasaggio - via dal gratis - la batteria blu di marco

Continuavamo a fare le prove al Gratis di Senigallia. Io scrivevo la maggior parte dei testi, Daniele ne aveva scritti un paio (Comunicato e 3, 2, 1… guerra), ma soprattutto lui aveva il compito di “realizzare” le musiche. Delineava la linea melodica e poi definiva il giro di basso, lo insegnava a Donatella e la batteria seguiva. Io ci urlavo sopra. Abbastanza incurante del coordinamento con la musica.
I testi erano rigorosamente in italiano, ma difficilmente si potevano capire, così – per svolgere correttamente la “funzione comunicativa” – li ciclostilavamo e li distribuivamo prima dei concerti, così che – una volta a casa – si potesse capire che diavolo avevamo tanto da urlare in quella mezz’ora sul palco.

Nel tempo ci sarà una svolta, testuale e musicale, ma agli inizi eravamo velocità pura. Quasi hard-core, direi. I pezzi duravano un paio di minuti. Si correva e si urlava, si correva e si urlava. A squarciagola. Ascoltavamo tutti i gruppi della Crass Records e Daniele amava anche l’hard-core americano M.D.C., D.R.I., Black Flag ovviamente… e ancora influenze metal, che però non trasparivano più di tanto.
I testi erano ovviamente iperpoliticizzati: parlavano di scenari post-nucleari, erano invettive contro la politica, lo stato, la droga, lo sfruttamento degli uomini e degli animali. Io e Donatella eravamo vegetariani e nessuno indossava capi in pelle (salvo le scarpe, sigh…). Contro l’abuso di pelli e pellicce avevamo scritto Pelle d’animale («pelle sulla propria pelle/pelle d’animale/pelle sulla propria pelle/ criminale! Criminale!» era il refrain); contro la droga avevamo Create i vostri martiri («Cosa credete di combattere?/Cosa credete di cambiare?/siete parte del sistema/che vi credete di rifiutare»).
Come gruppo rimaneva il problema del batterista. Michele non ce la faceva a seguire due band! Dovevamo correre ai ripari. Pina (che non suonava più, e il suo posto di bassista nei Cracked Hirn l’aveva preso Cavallo, che prima faceva degli interventi di sax nei loro brani) ci presenta un ragazzo con il ciuffo dark alla Bauhaus che mi pare si chiamasse Daniele (ricordo invece il soprannome che la stessa Pina gli diede alcuni mesi dopo, a seguito di avances non gradite…). Non ci piaceva granché, ma avevamo bisogno di un batterista, allora lo arruolammo nel gruppo. Aveva dei rudimenti batteristici ma nulla più. Teneva il tempo. Parlavamo molto poco. Ci dava l’aria del poseur, tanta immagine ma poca sostanza. Eravamo un gruppo politico che diceva le loro cose in musica, primariamente. E dunque l’immagine contava poco. Per lui, probabilmente, era tutto.
Ovviamente durò poco. Non ricordo bene, ma probabilmente non fece mai un concerto con noi.
Anche il Gratis cominciava ad andarci stretto. Per suonare era necessario prenotarsi. Poi c’era il treno da prendere, gli orari da rispettare. Probabilmente anche ai gestori del Gratis i punk cominciavano a stufare. Gran casino per nulla… meglio il jazz.
Cominciammo a valutare la possibilità di suonare a Falconara.
In fondo c’erano ancora i locali dovevo avevo iniziato a suonare con i Black Lizard e… forse c’era anche il batterista disponibile: Marco! Perché non ci avevo pensato prima? Sì, c’era. Era disponibile. Aveva voglia di suonare (aveva lasciato la sua batteria blu nella vecchia stanza-prove), condivideva soprattutto gli ideali non-violenti e pacifisti del gruppo. Era dei nostri: era IL NOSTRO BATTERISTA! E c’era anche la stanza! Tutta per noi, per suonare e fare tutte le attività che volevamo! Un sogno!

giovedì 11 ottobre 2007

ParkinGang

E venne l’ora del primo concerto! Ma il termine non è forse dei più appropriati. Non facevamo concerti! Mica eravamo una rockband! Facevamo “interventi”, “performance” ecc. E proprio di una “performance” si trattò. Era il luglio 1982, il contesto si chiamava Parkingang, si teneva in Piazza del Papa, ad Ancona, ed ospitava – credo – numerosi gruppi “emergenti” (come si usa dire ancor’oggi, senza capire da cosa si debba emergere… boh!). La nostra serata era nata dalla collaborazione del nostro gruppo con i più rodati Cracked Hirn e nientemeno che con i Raf Punk di Bologna, i quali non avrebbero suonato, ma molti del loro collettivo si sarebbero prestati quali interpreti di una performance antinuclearista assieme ad altri punks del maceratese (Trodica di Morrovalle era una città particolarmente ricca di gruppi-collettivi punk).
Due parole sul primo incontro con i Raf per la preparazione della performance: l’appuntamento era in via Rovereto, eravamo tutti più o meno in fibrillazione per la “calata” marchigiana dei bolognesi. Sarebbero venuti Barbara, Laura e Jumpy (e forse qualche altro). Di quel pomeriggio ricordo il loro ritardo bestiale (ore!) e la serenità di Jumpy che, col suo accento bolognese e la erre arrotata, disse candidamente al suo arrivo: «abbiamo fatto tardi…» e poi, ovviamente, i preparativi e il resto.
Ma torniamo alla performance. Il cui titolo mi pare fosse: E=mc2 – La forza e il fascino di una parola nuova. I preparativi iniziarono il pomeriggio. Sul palco ci saremmo alternati con i Cracked, quando suonavamo noi loro sarebbero stati in fondo in posizione contrita, quando suonavano loro noi avremmo preso il loro posto ecc. Solo il povero Michele, batterista stabile dei Cracked e temporaneo degli Azione Non Violenta, avrebbe suonato per tutto il tempo!
Tra i blocchi di brani erano collocati gli interventi attoriali degli altri, che avrebbero coinvolto il pubblico e gli stessi “musicisti” nella scena.
Al calare delle prime luci della sera la piazza si comincia a popolare di punks arrivati da ogni dove (non moltissimi, per la verità, ma abbastanza… a quell’epoca non ne avevo mai visti tanti tutti insieme). Per richiamare gente Carlo, chitarrista dei Raf Punk, si mette alla batteria e comincia a suonare un ritmo sincopato andando avanti fino al momento dell’inizio del concerto. Nel frattempo, un punk ubriaco stonava, da solo, «Do they owe us a living? Of corse they do, of corse they do. Owe us a living? Of corse they fuckin’ do!», barcollando tra le sedie e le bottiglie di birra vuote sotto il palco.
Del concerto ricordo molto poco. Ricordo che non sapevo dove mettere le mani e allora le tenevo ancorate sul microfono. Imparai da quella esperienza a cantare a carponi, inginocchiato o steso a terra, per evitare di muovermi in modo per me imbarazzante. In fondo, continuavo ad essere una persona timida e poco propensa alle relazioni umane. Ma mi trovavo a cantare in una band punk, quindi qualcosa dovevo fare… Mi sembra che il concerto finì con i militari (punk travestiti da militari, ovviamente) che ci prendevano di forza da sopra il palco e ci portavano via. “Sottile” metafora di uno stato militarizzato vendutosi al nucleare che lasciava dietro di sé (sotto il palco, con i volti rigati di rosso sangue) uomini e donne martoriati.

Azione Non Violenta (e i Cracked Hirn sullo sfondo, in bianco: Barbara a destra e i maceratesi sulla sinistra)




i Cracked Hirn (e noi sullo sfondo)
...cosa darei per sapere dov'è finita la bandiera!

venerdì 28 settembre 2007

A Senigallia, al Gratis!

La frequentazione del circolo anconetano era oramai regolare. Tutte le settimane ci andavamo almeno una volta (un po’ come andare a messa, adesso che ci penso…). Ovviamente, io e Daniele avevamo voglia di suonare. Lui era un buon chitarrista, io un chitarrista male in arnese e siccome all’epoca i gruppi punk avevano rigorosamente una sola chitarra era logico che la suonasse lui. Io scelsi di cantare, anche se l’idea di suonare il basso mi allettava, ma era molto più difficile trovare qualcuno che avesse voglia di urlare a un microfono piuttosto che violentare uno strumento a corda, che peraltro richiedeva pochissima applicazione per il tipo di musica che dovevamo fare.
Decidemmo così di partire. Ci voleva il nome. E ci voleva un nome dal quale si capisse subito chi eravamo e cosa volevamo dire. Ci rimuginammo un po’ su e poi decidemmo per Azione Non Violenta (non sapevamo tra l’altro dell’esistenza di una rivista con questo nome). Ricordo ancora una digressione sul nome con Marco, allora cantante dei Cracked Hirn e ora professore di sociologia presso un ateneo marchigiano, fuori dal circolo di via Rovereto con lui che diceva, ironico, «Bé sì, è un bel nome… poi ci sono un paio di A da cerchiare… quindi va bene!». Scherzavamo, ma mica tanto. Era “necessario” che i nomi delle band avessero almeno una A, in modo tale da far capire subito di che pasta eravamo fatti!
Che Azione Non Violenta sia, allora! Avevamo la benedizione dei SubPunks (di lì a poco SubPunx) e così avevamo un nostro gruppo!...
Sì, ma eravamo solo in due! Azz…!
Dovevamo trovare basso e batteria.
In quel periodo si aggirava negli ambienti dei di lì a poco Rivolta dell’Odio una ragazza simpatizzante punk, ma certo più vicina agli orizzonti new wave di Cure, Joy Division e creature simili. Si chiamava Donatella e anche lei veniva dalla provincia. Era una ragazza molto sensibile e introversa che prendemmo subito in simpatia, forse proprio per la sua personalità difficile da gestire (non era una estroversa tutta birra e bacini insomma). Non sapeva suonare nulla, quindi decidemmo di affidarle il basso! Non ricordo chi glielo prestò, forse se lo comprò di seconda mano. Era un vecchio basso rimesso a posto in casa che faceva il suo dovere e niente di più.
Rimaneva il problema della batteria, ma non potevamo più aspettare: per un certo periodo suonò con noi Michele, alias Mik Fuk, lo sbatterista (come si definiva) dei Cracked Hirn.
Dove suonare?
Ma al Gratis, ovviamente!
Il Gratis era uno stanzone insonorizzato di Senigallia, proprio di fronte alla stazione, gestito da anarchici e lottacontinuisti, adibito a luogo di incontro e sala prove per gruppi musicali di ogni genere. C’erano anche gruppi jazz che suonavano lì. Lì ci provavano i Cracked, lì facemmo le prime prove anche noi.
Per l’epoca il posto era l’anticipatore del Tuwat, che arriverà di lì a poco.
Cominciammo a buttare giù i primi testi, Daniele sviluppava le linee musicali e insegnava a Donatella il giro di basso, Michele dava il tempo fracassando i tamburi. Dovevamo suonare veloce e urlare le parole. Che dovevano essere in italiano. Ci credevamo molto. Era necessario che la gente potesse capire perché eravamo così incazzati. Il paradosso è che si doveva cantare in maniera così selvaggia che poi difficilmente chi ascoltava riusciva a capire le parole.
Non ricordo per quanti mesi suonammo lì, ma senz’altro il tempo necessario per preparare il concerto-performance di Piazza del Papa, realizzato insieme al collettivo punk di Bologna, sì quello dei Raf Punk che in quel periodo avevano dato vita all'autoproduzione di dischi con quello che rappresenta un documento storico del punk italiano Schiavi nella città più libera del mondo, un EP con quattro band bolognesi.

venerdì 7 settembre 2007

SubPunks!

Insomma, si passava il tempo a parlare. Si incontrava qualcuni, metallari per la maggior parte (Daniele era – ed è – un fan dei Kiss, ma gli piaceva anche Van Halen – io ero più per i Judas Priest e per i Motorhead, ma il metallo non mi attirava molto, troppi riff, troppi capelli, troppa scena).
Poi un giorno venimmo a sapere che a Senigallia ci sarebbe stato un concerto punk, di pomeriggio. Prendiamo il treno e andiamo.
Non ricordo chi suonasse, probabilmente i Cracked Hirn di Ancona, ma non ne sono sicuro. So solo che eravamo due tra i tre-quattro esagitati che si dimenavano sotto il palco con addosso gli occhi stupiti della maggior parte degli astanti.
Tutto finì lì. Almeno sembrava.
Fin quando un giorno, lungo il nostro girovagare anconetano venimmo fermati – di fronte alla vetrina di un negozio di materiale artistico, altra nostra meta preferita – da un gruppetto di punk che ci chiesero: «ma eravate voi al concerto di Senigallia sotto il palco?» Con orgoglio rispondemmo che sì, eravamo proprio noi.
Avevamo conosciuto i SubPunks di Ancona. Un gruppo di punk che si incontravano in un garage di via Rovereto dove alla saracinesca era disegnato un campanello con scritto “bitte klingen” (o forse il campanello era vero. Non mi ricordo).
Ci invitarono alla loro sede. Eravamo entusiasti. Finalmente potevamo parlare di ciò che ci interessava anche con altri.
SubPunks raccoglieva parecchie persone di Ancona e zone limitrofe, al suo interno operava anche il gruppo musicale dei Cracked Hirn (Marco che cantava, Pina al basso, Qut alla chitarra e Michele alla batteria). Di lì a poco nacque anche un’altra formazione, che ebbe un discreto successo nel circuito, i Rivolta dell’Odio.
C’era un sacco di gente strana. Capelli rasasti, creste, anfibi, giubbotti e pastrani pieni di scritte, pantaloni zeppi di cerniere, borchie… Persone tenebrosissime all'apparenza ma - lo scopriremo con il tempo - assolutamente amichevoli, divertenti, aperte.
Cominciamo a frequentare quel garage abbastanza spesso, almeno una volta alla settimana. Erano – e dunque “eravamo” – in contatto con il circuito punk anarco-pacifista italiano, quello che aveva nei RafPunk di Bologna il loro nume tutelare, per intenderci.
Il garage era diviso in due stanze: nella prima c’era un lungo tavolo con relative sedie. Sul lato sinistro una specie di dispensa dove erano ammassati giornali, opuscoli, libri vari. Prevalentemente materiale dell’Autonomia, Lotta Continua, anarchici. La maggior parte era lì da chissà quanto tempo e probabilmente nessuno degli occupanti di quel momento l’aveva vista arrivare. Girava parecchia birra, ma io ne bevevo poca. Ne bevo poca anche adesso. La birra gonfia e fa sudare.
Non girava droga. Per lo meno quando c’eravamo noi. Forse qualche spinello. Ma raramente.
Del resto eravamo tutti punk intransigenti: animalisti, salutisti, pacifisti, anti-tutto o quasi.
Poi c’era un’altra stanza, ricavata all’interno e ricoperta di materiale fonoassorbente nella quale si ascoltava la musica. Ricordo una luce irreale, giallo-arancione, che illuminava le note di tutto lo scenario punk del periodo: Crass, Poison Girls, Dirt, Omega Tribe, Flux of Pink Indians, Rudimentary peni, Subhumans, ma anche gli americani: Black Flag, D.O.A., Million of Dead Cops ecc.
Grazie al contatto con i bolognesi lì arrivavano tutti i dischi della Crass records. Era incredibile: dischi impossibili da trovare e che se trovavi ti costavano un occhio della testa a causa delle importazioni più o meno legittime, li potevi acquistare più o meno al prezzo politico imposto dall’etichetta inglese.
I SubPunks avevano poi quello che oggi chiameremmo senz’altro un rito d’iniziazione: il taglio dei capelli. Omar (che poi diverrà il cantante dei Rivolta dell’Odio e che era bassista degli SWBZ oramai sciolti) era il “barbiere” ufficiale. Macchinetta scalpatrice alla mano si trovava spesso ad avere a che fare con ciocche e forfora.
In quanto rito iniziatici doveva toccare anche a noi. Il risultato fu disastroso. Daniele si fece fare un mohicano che dovette riparare lasciandosi crescere i capelli probabilmente per un anno, cercando di coprire la devastazione tricotica, a me fece una rasatura sopra le orecchie assolutamente improbabile. Il problema non fu tanto il taglio, quanto il ritorno a casa, dalle rispettive famiglie.
Non so quello che successe a Daniele (ma lo posso immaginare), so quello che mi urlarono contro i miei quando ebbero modo di vedere la mia nuova acconciatura!
Ma si era adolescenti e dunque i genitori avevano per definizione torto (e lo avevano veramente, perché cosa vuoi che te ne freghi di come tuo figlio si taglia i capelli quando in piazza solitamente ci si strafaceva di eroina e molti coetanei si trovavano quotidianamente in una pozza di vomito!). Però per la mia famiglia l’apparenza era tutto. Quindi ero un disgraziato!
Poi passerà. Lentamente accetteranno il mio modo d’essere (forse perché nel frattempo avevano fatto un giretto in piazza!) e mia madre sarà la corresponsabile delle toppe attaccate sul giubbotto e delle zip sui pantaloni.

mercoledì 29 agosto 2007

altri esseri mutanti

A Falconara, in quegli anni, si aggirava anche un altro essere mutante, che avevo visto passare tra l’altro nella zona di casa mia… quindi dovevamo essere pure vicini…
Ero preso tra due fuochi: da una parte la mia originaria ritrosia ai rapporti umani, annessa alla difficoltà di fare conoscenza con persone nuove, dall’altra l’urgenza di condividere un percorso che sembrava difficile se condotto in solitaria. Non si poteva restare ancora chiusi a casa a suonare la chitarra sulle note dei Kaos Rock!
Quindi, decido di appostarmi per capire chi è quella persona che se ne va in giro con i jeans sdruciti e una camicia a penzoloni con sulle spalle il simbolo dei Crass. Sì perché non è che si porta il simbolo dei Crass come si porta “The Clash” o “Sex Pistols”. Portarsi i Crass sulle spalle significava già essere in un altro mondo, ancora più lontano.
Non ricordo quali furono i passaggi, ma sta di fatto che ci conoscemmo. Era Daniele. Sarebbe stato il chitarrista degli Azione Non Violenta. Ma non subito.

Cominciammo a vederci. Ogni tanto veniva alle nostre prove, ma più spesso ce ne andavo in giro. Quasi sempre in Ancona. Falconara ci stava stretta. Noi volevamo uscire dalla provincia… e allora andavamo al capoluogo!
Perché? Boh. Sta di fatto che prendevamo l’autobus e facevamo i dieci chilometri canonici per andarcene in giro per le vie doriche a parlare… di che? Non posso ricordarmi tutto.
Andavo per negozi di dischi. Sì, quello me lo ricordo. Negozi nei quali era impossibile trovare ciò che cercavamo, ovviamente. Solo una volta, mi ricordo, passò da casa mia e mi disse: «Blu Star c’ha i Crass!». Non potevamo crederci: un negozio di dischi aveva nientemeno che il doppio dei Crass, in cofanetto nero, Christ. The album. Ovviamente andiamo subito a verificare ulteriormente, sperando non l’avesse già venduto (già, ma a chi?).
Il negozio era Blue Star, specializzato in jazz e musica colta, sempre pieno di gente con la puzzetta sotto il naso. Entriamo. Il negozio era famoso anche perché ti faceva ascoltare i dischi, quindi gli chiediamo «Ce lo fai sentire?». Lui – ovvero il proprietario, che è ancora tale – guarda un attimo noi e il disco. Interdetto. Vorrebbe dirci di no, ma siccome è di sinistra e cerca di fare il compagno ci dice di sì. Erano i Crass: “Ladies and gentelman is Christ!...” e poi parte “Have a nice day”! Grandioso… per noi ovviamente… per il negoziante un po’ meno. Per prima cosa abbassa il volume, come se qualcuno avesse urlato una bestemmia in chiesa, poi, dopo pochi secondi che eravamo con le orecchie a penzoloni ad ascoltare ci dice: «…lo tolgo eh?». E toglilo! Ci guardiamo un attimo e compriamo il disco.
Era bellissimo. Non solo per il contenuto musicale, ma per come era fatto.

Due dischi, uno con materiale inedito e un secondo dal vivo, un libretto formato LP con un sacco di pagine e di testo. Una manna da tradurre nelle giornate che passavo chiuso in casa. O la sera.


Quel disco è una sorta di reliquia di quegli anni e questo il suo contenuto:

Steve Ignorant/vocals
Joy de Vivre/vocals on Birth Control and Sentiment
Peeve Libido/backing vocals
Phil Free/lead guitar and synthesizer of Sentiment
Sri Hari Nana B.A/rhythm sitar
Sybil Right/bass
Elvis Rimbaud/drums and radio
G. Sus/tape collages
Strings on Reality Whitewash by Paul Ellis and The Southern Symphonietta.

DISCO 1
CHRIST - THE ALBUM

Side 1:
Have a Nice Day... Mother Love... Nineteen Eighty Bore... I Know There Is Love... Beg Your Pardon... Birth Control 'n' Rock'n'Roll... Reality Whitewash

Side 2: It's The Greatest Working Class Rip-off... Deadhead... You Can Be Who?... Buy Now Pay As You Go... Rival Tribal Revel Rebel (Pt. 2)... Bumhoofer... Sentiment (White Feathers)... Major General Despair

DISCO 2
WELL FORKED BUT NOT DEAD

Personnel as above except Peeve Libido who is on lead vocals on Nagasaki Nightmare, Darling, Berkertex Bribe and Shaved Women.
Side 1:

Banned From The Roxy... The Sound Of One Hand... Punk Is Dead... Nagasaki Nightmare... Darling... Beta Motel Blues... Berkertex Bribe... Fold It In Half... Big Hands... Heart-throb Of The Mortuary... Bumhooler... Big A Little A... First Woman
Side 2:

Arlington 33... Bomb plus Bomb tape... Contaminational Power... I Ain't Thick... G's Song... Securicor... I Can't Stand It... Shaved Women... A Part Of Life... Do They Owe Us A Living... So What... Salt 'n' Pepper

martedì 21 agosto 2007

Verso il punk - via Rimini

Il punk stava progressivamente entrando nella mia vita, attraverso canali inconsueti, da solitario quale ero e da residente nella provincia della provincia. Con un amico di scuola, Maurizio A., andavamo a rifornirci di dischi alla Dimar di Rimini, che vendeva anche per corrispondenza. Lì potevo trovare parecchi dischi punk, la maggior parte d’importazione.

Ricordo ancora i nostri viaggi in treno per arrivare al negozio di dischi. Maurizio suonava la fisarmonica in un’orchestra di liscio tra le più conosciute della zona, ma alla Dimar veniva a comprare dischi di classica, di jazz, di grandi vocalist soul. Era anche un appassionato di elettronica e suonava la tastiera molto bene. Leggeva tutti i giorni La Gazzetta dello Sport, dalla prima all’ultima riga. Giocavamo a tennis assieme, l’ultimo sport che praticherò nella mia vita.
Insomma, arrivare a Rimini, fare il tragitto fino al negozio di dischi, entrare lì dentro, era una sorta di rituale che ci concedevamo due-tre volte l’anno. Il reparto di musica punk era dentro il più ampio reparto rock al secondo piano però, con mio stupore, aveva una sezione dedicata. Due contenitori pieni di LP (siamo sempre all’epoca del vinile).
Il catalogo che arrivava a casa era meno ricco, ma c’era spesso qualcosa di interessante. Lì ho comprato oltre ai Sex Pistols e ai Clash anche i Sham 69, gli Angelic Upstarts e gli Exploited, ma pure Dead Kennedys, Black Flag, Discharge, Crass, Poison Girls, Flux of Pink Indians e molto altro ancora.


In quegli anni vennero proiettati anche dei film sul punk, al cinema di Chiaravalle. C'era Rude Boy dei Clash, The Great Rock 'n' Roll Swindle dei Pistols, Rock 'n' Roll High School con i Ramones e un paio di altri che non ricordo. Eravamo in cinque-sei agli spettacoli pomeridiani. Praticamente unmento, per il gestore...

Mi ricordo ancora la mia prima spilletta, rettangolare, di ferro, comprata per corrispondenza, dei Sex Pistols. La portavo su un impermeabile alla Bogart chiaro, con il bavero largo tipicamente anni ’70. Erano i miei primi passi verso una realtà che conoscevo poco ma che mi affascinava, fatta di rifiuto della società, delle convenzioni, della politica istituzionale, della musica istituzionale, dell’idea di “normalità”.
Sempre per corrispondenza comprai una maglietta dei Crass, bianca con la scritta rossa, la grande A cerchiata e il mitra spezzato.

La mia chitarra suonava sempre più distorta, abbandonando definitivamente il tentativo di destreggiarmo in arpeggi e virtuosismi solistici.
Leggevo il manifesto, che all’epoca per quattro pagine si faceva pagare 1000 lire! Leggevo A. Rivista anarchica e cominciavo a capire qualcosa di più sull’anarchia e sul pacifismo, di cui sentivo parlare nella musica che ascoltavo.
Cominciavo a vestirmi solo di nero. Avevo un trench che era di mio nonno, o di mio zio, che mi piaceva da morire. Tutto dritto con il bavero piccolo, anni ’50-’60. Lì sopra appuntavo la mia spilla. Avevo un lucchetto nel passante dei pantaloni e una cinta bullonata fatta in casa. La fatica per trovare le borchie in vendita e per inserirle in una vecchia cinta di cuoio nero che portavo rigorosamente bassa, sui fianchi. Portavo un foulard a fantasia bianco e nero sul passante destro dei pantaloni che penzolava giù lungo la coscia. Pantaloni strettissimi, ovviamente neri, con le cerniere in fondo.
Non ero ancora riuscito a trovare un chiodo (il giubbotto nero da motociclista portato alla notorietà da Marlon Brando ne Il ribelle). Quando era più freddo indossavo l’eskimo verde. Mio padre ce li aveva dal lavoro, toglievo la scritta della grossa azienda per la quale lavorava come operaio e lo mettevo io, con sopra le mie spille. I guanti avevano sempre le dita tagliate.
I capelli. Dovevano stare dritti. Ma come si faceva se ancora non c’era il gel?
Cotonandoli con il phon se erano lunghi, oppure con la saponetta, sfregandoli e irrigidendoli, o con la lacca della mamma, salvo uscire di casa lasciando una scia di parrucchieria da vecchia signora.
Capivo che intorno a me c’era fermento. Ricordo un concerto degli SWBZ di Ancona tenutosi nei locali dell’ex-manicomio al quale ero andato… con i miei genitori che mi aspettavano fuori (avevo credo quindici anni, non avevo ovviamente la patente, non avevo il motorino, non avevo amici più grandi, non c’era un autobus che poteva portarmici, era notte…)!
Poi uscì un libro Province del Rock ‘n’ Roll, che perlava oltre che degli SWBZ, dei Papers Gang e altri marchigiani che suonavano qualcosa che forse era già post-punk… Boh!
Certo è che essere punk a Falconara Marittima, provincia di Ancona, nelle Marche, era proprio un bel problema. Non c’era Internet, non c’erano i cellulari.
Praticamente, intorno era tutta campagna!

lunedì 20 agosto 2007

L'inizio: 1981 (o giù di lì) - i Black Lizards

Mi sembra che stessi frequentando il secondo anno dell’ITIS quando mi comperai (anzi: mi comperarono – i miei) una chitarra elettrica. Era una Ibanez MC100DS, comprata da Rossi-Strumenti musicali in Ancona. Per l’amplificatore sfruttai invece una conoscenza pesarese di mio zio e comprai un TreP (che Giulio un giorno mi rivelò suonare come una radiolina!!!). Ah! E un mitico effetto distorsore, wah-wah, riverbero che ogni volta che accendevo si prodigava in un larsen lancinante…

All’epoca ascoltavo i Sex Pistols e i Clash e quindi il fatto che l’ampli suonasse male non mi disturbava molto, anzi, non me ne accorgevo affatto. Però ascoltavo anche Ivan Graziani, Alberto Camerini, Eugenio Finardi, gli Area. In quegli anni uscì la compilation Rock 80 e impazzivo per i Kaos Rock, le Kandeggina Gang e gli Skiantos (tutti con la kappa!).


Era l’epoca del vinile, certo.
Con la chitarra ci suonavo sopra [“suonare sopra” significa tentare di accompagnare il disco mentre suona e non suonare seduto sopra copertina, ovviamente…], nella mia camera.
Sono sempre stato un tipo solitario.
Anche quando ero piccolo guardavo dalla finestra i bambini giocare tra loro. Mi divertiva. Ma non avrei mai pensato di scendere di sotto a giocare con loro. Tra la finestra e la strada c’era una distanza per me salutare. Solo una volta ho cercato di comprendere la sensazione che vivevano i miei coetanei tra la polvere della salita ghiaiosa, ma fu disastroso. Io conoscevo tutti i loro giochi dal punto di vista teorico (infatti li guardavo sempre), ma sul lato della pratica ero una frana. Si trattava di una sfida a “cappuccetti”, sì quelli che si arrotolano con le strisce di carta e poi si sparano con la cerbottana.


I più “teppisti” avevano cerbottane supermultiple, fatte con quattro-cinque canne sovrapposte legate con lo scotch, di solito nero o bianco. Io avevo una cerbottana da due.
E ogni tanto “sparavo” dalla finestra.
Sì perché in quegli anni le strisce erano di carta, ora se le fanno di coca. Pazienza.
Ma questo è moralismo d’accatto! Torniamo a noi.
La carta era di solito quella di giornale, preventivamente tagliata a strisce che, in forma di mazzetto, venivano portate nella cinta dei pantaloni. Come un fallo floscio che pendeva dalla cerniera i bambini degli anni Settanta indossavano con orgoglio fasci di potenziali “cappuccetti”, pronti ad essere arrotolati, leccati in punta per l’incollaggio e sparati. La carta da giornale aveva un’ottima tenuta con la saliva. I più aggressivi avevano strisce di carta patinata, più difficili da incollare, ma estremamente pungenti una volta sparati.
Questa parentesi era necessaria. Non che fossi solo, piuttosto “solitario”. Avevo anch’io qualche amico con il quale sfogare ludicamente l’energia sessuale repressa dell’adolescenza in fiore. Giocavo anch’io a soldatini (la serie HO della Atlantic! Li conservo ancora dentro una scatola di cartone), ma preferivo giocarci da solo. Nei pomeriggi postscolari delle elementari prendevo la mia collezione (che si rimpinguava di solito il lunedì dei giorni di vacanza, giorno di mercato), ne estraevo delicatamente i contenuto e li posizionavo sul tavolo della cucina. Poi, una volta schierati i sommozzatori, i carabinieri, la fanteria, i mezzi corazzati ecc., li guardavo dall’alto e quindi li rimettevo ordinatamente nelle loro scatole.



Ma ero bambino.
Non migliorerò crescendo.
Insomma, mi ero comprato una chitarra e la suonavo da solo.
Un giorno un mio compagno di classe (Pino) mi rivelò di avere un amico (Marco) che – come me – si era comprato una batteria e la suonava da solo. Poteva metterci in contatto.
In uno slancio di socialità accettai e conobbi Marco e la sua batteria blu.
Non sapevamo bene come fare, ma un altro compagno di scuola (Gianluca R.), anche lui di Falconara e suonatore (capace) di basso elettrico esercitava le sue dita in un locale concessogli dal Comune, all’interno di un ex-asilo, nel centro della città. Ci dice che se mettiamo su un gruppo potrebbe ospitarci nella sua stanza (attenzione: questo nome sarà fondamentale!) per “fare le prove” una volta la settimana.
Parentesi: questa cosa di “fare le prove” è sociologicamente interessante. Quando si dice “fare le prove” ci immaginiamo che esse siano finalizzate a un obiettivo. Nel caso specifico: un concerto. In realtà all’epoca si facevano le prove e basta, tanto era difficile immaginare l’ipotesi di suonare per un pubblico vero. Si “facevano le prove” perché si aveva voglia di suonare. E basta.
Quindi: avremmo avuto a disposizione una stanza per le prove!
Mancava il gruppo! Allora: chitarra – presente! Batteria – presente! Ci vuole almeno un basso! Ach! Un gruppo senza basso non è credibile. Come si fa?
Aspettiamo che inizi il terzo anno. All’ITIS è quello in cui si passa dal biennio al triennio specialistico. Io faccio meccanica. Pino elettronica, insieme a Marco. Nella loro classe c’è Giulio. Che suona il basso! Che culo, ragazzi!
Beh, in realtà in quegli anni suonavano un po’ tutti, quindi non era difficile trovare dei musicisti in fiore tra i propri amici-colleghi-compagni.
Giulio era fratello di altri musicisti. Lui sapeva suonare. Noi strimpellavamo. Comunque accetta, non so se per piacere, per carità, o perché anche a lui faceva comodo un posto dove suonare.
Finalmente: fondiamo i Black Lizards! Le lucertole nere! Era il 1981, avevamo quindici anni, e ci trovavamo nella stanza di Gianluca R. a suonare… cosa?
Per fortuna Giulio ne capiva di musica e sapeva suonare parecchie canzoni, quindi noi a ruota. Gli feci ascoltare London Calling dei Clash e In God we Trust dei Dead Kennedys. Che a lui non piacquero (ascoltava i Weather Report, Jaco Pastorius, Level 42, quindi…), ma trovò lì dentro qualcosa che poteva consentirci di trovare un accordo: Jimmy Jazz per i Clash, e – addirittura – We’ve got a bigger problem now per i DK, che cominciammo a suonare pian piano sempre meglio. Poi facemmo Psyhco Killer dei Talking Heads, Hey hey, my my di Neil Young, mi pare anche Roxanne dei Police, o forse un’altra, non ricordo.
Insomma un repertorio scarnissimo che non poteva portarci da nessuna parte al di fuori della stanza. Eppure ci trovavamo lì. E ci divertivamo come pazzi.
Ovviamente il trio chitarra-basso-batteria si estese lentamente. Nessuno era capace di cantare, né tantomento voleva cimentarsi, quindi dovevamo trovare un vocalist. C’era bisogno di un soggetto sufficientemente pazzo da spaziare da Talkin Heads ai Dead Kennedys. Ovviamente uno così c’era: Fabrizio suonava le congas ed era sufficientemente folle da cantare in un inglese assolutamente improvvisato ma efficace. Era dei nostri!
Poi i riff di chitarra. Io riuscivo sì e no a tenere il tempo e quindi a fare la ritmica. Gli assoli non li sopportavo, li facevo solo a casa, imitando Ivan Graziani e con un sottofondo musicale adatto. Assieme agli altri non mi venivano proprio, perdevo il tempo, non conoscevo le scale ecc. C’era bisogno di un chitarrista al quale piaceva essere protagonista. Ovviamente c’era anche lui. Gianluca S. fu presto dei nostri. Avevo una Eko che a me non piaceva affatto, ma lui la suonava bene, con uno stile tutto suo, che si riconosceva subito. Neppure lui era un “grande chitarrista” (ce n’erano un paio di “grandi chitarristi” da quelle parti, che quando suonavamo noi se ne andavano con aria abbastanza schifata), ma per noi era grandissimo.
La formazione dei Black Lizard è importante perché da quella nasceranno i gruppi che animeranno la “scena” falconarese degli anni Ottanta. Infatti: Giulio e Fabrizio fonderanno gli Ashill Forrest, gruppo fusion di gente che sapeva suonare; Gianluca S. fonderà gli Spasmi, new wave tipo Ultravox ma soprattutto Simple Minds e Depeche Mode; io e Marco fondammo gli Azione Non Violenta, ma non subito.
Si deve prima passare per un’altra storia.

istruzioni per l'uso

Avevo iniziato, qualche settimana fa, a scrivere questo blog su myOpera. Opera è un browser alternativo a Explorer che, a mio avviso, funziona molto meglio e ha molte funzionalità aggiuntive che lo rendono pratico e veloce. Tra queste funzionalità vi è la possibilità di creare spazi personali piuttosto belli da vedersi ma, mi rendo conto ora, poco adatti all'interazione e - soprattutto - poco visibili.
Ho deciso quindi di trasferirmi su blogger, che invece supera questi problemi.
Ciononostante mantengo lo spazio su myOpera, linkato qui a fianco, ma non voglio creare inutili doppioni, pertanto ho deciso di distinguerne i contenuti come qui sotto elencato.
su strategiadellalumaca.blogspot.com troverete:
la storia della lumaca, a partire dagli anni Ottanta - con qualche incursione nel passato più remoto - e le attività più recenti;

su my.opera.com/marcone66 troverete:
una sorta di curriculum vitae, quindi articoli pubblicati e non, fotografie, immagini, lavori e quant'altro. L'aggiornamento su Opera verrà indicato su blogspot e viceversa.

Ok. Si riparte da zero, quindi.

domenica 19 agosto 2007

introduzione


questo è il logo dello spazio che mi sono creato. "strategia della lumaca": una ruspa che esce da una chiocciola e che, nonostante la sua lentezza, fa piazza pulita di ciò che la disturba. cosa trovete qui? un po' di azioni e parole, alcune delle quali già apparse altrove, altre nuove.
Come ogni spazio di questo genere c'è forse un briciolo di egocentrismo, ma neanche tanto. Se non per mostrarsi, allora perché? perché internet è forse il mondo e perché visto che ci stiamo - al mondo - forse vale la pena di stare anche su internet.
con una parola ambiziosa, ma molto alla moda, "la strategia della lumaca" vuole essere un "progetto" che ha a che fare con la cultura nella sua definizione più ampia. E dunque produzione e veicolazione di eventi culturali, di "beni" fruibili e disponibili (cominciamo ad abbandonare la nozione di "prodotto" culturale). Un progetto che mi riguarda e che riguarda tutti coloro che, in questo percorso, vogliono condividere alcune scelte, alcune iniziative, alcuni spunti.
Molte delle cose che troverete qui sono già state avviate con l'associazione culturale l'Orecchio di Van Gogh, altre seguiranno, altre ancora l'hanno preceduta.
La "strategia della lumaca" parte da lontano, dagli anni Ottanta (quando Milano era da bere e Falconara da bruciare...), da quando si consumarono i suoni del punk, e giunge fino ad oggi. Anzi, fino a domani.
Dentro alla chicciola, quindi, oltre a me, ci si sono trovati in tanti: amici, compagni, spettatori... come diceva una canzone. Alcuni consapevolmente, altri meno hanno contribuito a lasciare il filo di bava che segna il cammino.
Vedremo, strada facendo, di che si tratta.