lunedì 20 agosto 2007

L'inizio: 1981 (o giù di lì) - i Black Lizards

Mi sembra che stessi frequentando il secondo anno dell’ITIS quando mi comperai (anzi: mi comperarono – i miei) una chitarra elettrica. Era una Ibanez MC100DS, comprata da Rossi-Strumenti musicali in Ancona. Per l’amplificatore sfruttai invece una conoscenza pesarese di mio zio e comprai un TreP (che Giulio un giorno mi rivelò suonare come una radiolina!!!). Ah! E un mitico effetto distorsore, wah-wah, riverbero che ogni volta che accendevo si prodigava in un larsen lancinante…

All’epoca ascoltavo i Sex Pistols e i Clash e quindi il fatto che l’ampli suonasse male non mi disturbava molto, anzi, non me ne accorgevo affatto. Però ascoltavo anche Ivan Graziani, Alberto Camerini, Eugenio Finardi, gli Area. In quegli anni uscì la compilation Rock 80 e impazzivo per i Kaos Rock, le Kandeggina Gang e gli Skiantos (tutti con la kappa!).


Era l’epoca del vinile, certo.
Con la chitarra ci suonavo sopra [“suonare sopra” significa tentare di accompagnare il disco mentre suona e non suonare seduto sopra copertina, ovviamente…], nella mia camera.
Sono sempre stato un tipo solitario.
Anche quando ero piccolo guardavo dalla finestra i bambini giocare tra loro. Mi divertiva. Ma non avrei mai pensato di scendere di sotto a giocare con loro. Tra la finestra e la strada c’era una distanza per me salutare. Solo una volta ho cercato di comprendere la sensazione che vivevano i miei coetanei tra la polvere della salita ghiaiosa, ma fu disastroso. Io conoscevo tutti i loro giochi dal punto di vista teorico (infatti li guardavo sempre), ma sul lato della pratica ero una frana. Si trattava di una sfida a “cappuccetti”, sì quelli che si arrotolano con le strisce di carta e poi si sparano con la cerbottana.


I più “teppisti” avevano cerbottane supermultiple, fatte con quattro-cinque canne sovrapposte legate con lo scotch, di solito nero o bianco. Io avevo una cerbottana da due.
E ogni tanto “sparavo” dalla finestra.
Sì perché in quegli anni le strisce erano di carta, ora se le fanno di coca. Pazienza.
Ma questo è moralismo d’accatto! Torniamo a noi.
La carta era di solito quella di giornale, preventivamente tagliata a strisce che, in forma di mazzetto, venivano portate nella cinta dei pantaloni. Come un fallo floscio che pendeva dalla cerniera i bambini degli anni Settanta indossavano con orgoglio fasci di potenziali “cappuccetti”, pronti ad essere arrotolati, leccati in punta per l’incollaggio e sparati. La carta da giornale aveva un’ottima tenuta con la saliva. I più aggressivi avevano strisce di carta patinata, più difficili da incollare, ma estremamente pungenti una volta sparati.
Questa parentesi era necessaria. Non che fossi solo, piuttosto “solitario”. Avevo anch’io qualche amico con il quale sfogare ludicamente l’energia sessuale repressa dell’adolescenza in fiore. Giocavo anch’io a soldatini (la serie HO della Atlantic! Li conservo ancora dentro una scatola di cartone), ma preferivo giocarci da solo. Nei pomeriggi postscolari delle elementari prendevo la mia collezione (che si rimpinguava di solito il lunedì dei giorni di vacanza, giorno di mercato), ne estraevo delicatamente i contenuto e li posizionavo sul tavolo della cucina. Poi, una volta schierati i sommozzatori, i carabinieri, la fanteria, i mezzi corazzati ecc., li guardavo dall’alto e quindi li rimettevo ordinatamente nelle loro scatole.



Ma ero bambino.
Non migliorerò crescendo.
Insomma, mi ero comprato una chitarra e la suonavo da solo.
Un giorno un mio compagno di classe (Pino) mi rivelò di avere un amico (Marco) che – come me – si era comprato una batteria e la suonava da solo. Poteva metterci in contatto.
In uno slancio di socialità accettai e conobbi Marco e la sua batteria blu.
Non sapevamo bene come fare, ma un altro compagno di scuola (Gianluca R.), anche lui di Falconara e suonatore (capace) di basso elettrico esercitava le sue dita in un locale concessogli dal Comune, all’interno di un ex-asilo, nel centro della città. Ci dice che se mettiamo su un gruppo potrebbe ospitarci nella sua stanza (attenzione: questo nome sarà fondamentale!) per “fare le prove” una volta la settimana.
Parentesi: questa cosa di “fare le prove” è sociologicamente interessante. Quando si dice “fare le prove” ci immaginiamo che esse siano finalizzate a un obiettivo. Nel caso specifico: un concerto. In realtà all’epoca si facevano le prove e basta, tanto era difficile immaginare l’ipotesi di suonare per un pubblico vero. Si “facevano le prove” perché si aveva voglia di suonare. E basta.
Quindi: avremmo avuto a disposizione una stanza per le prove!
Mancava il gruppo! Allora: chitarra – presente! Batteria – presente! Ci vuole almeno un basso! Ach! Un gruppo senza basso non è credibile. Come si fa?
Aspettiamo che inizi il terzo anno. All’ITIS è quello in cui si passa dal biennio al triennio specialistico. Io faccio meccanica. Pino elettronica, insieme a Marco. Nella loro classe c’è Giulio. Che suona il basso! Che culo, ragazzi!
Beh, in realtà in quegli anni suonavano un po’ tutti, quindi non era difficile trovare dei musicisti in fiore tra i propri amici-colleghi-compagni.
Giulio era fratello di altri musicisti. Lui sapeva suonare. Noi strimpellavamo. Comunque accetta, non so se per piacere, per carità, o perché anche a lui faceva comodo un posto dove suonare.
Finalmente: fondiamo i Black Lizards! Le lucertole nere! Era il 1981, avevamo quindici anni, e ci trovavamo nella stanza di Gianluca R. a suonare… cosa?
Per fortuna Giulio ne capiva di musica e sapeva suonare parecchie canzoni, quindi noi a ruota. Gli feci ascoltare London Calling dei Clash e In God we Trust dei Dead Kennedys. Che a lui non piacquero (ascoltava i Weather Report, Jaco Pastorius, Level 42, quindi…), ma trovò lì dentro qualcosa che poteva consentirci di trovare un accordo: Jimmy Jazz per i Clash, e – addirittura – We’ve got a bigger problem now per i DK, che cominciammo a suonare pian piano sempre meglio. Poi facemmo Psyhco Killer dei Talking Heads, Hey hey, my my di Neil Young, mi pare anche Roxanne dei Police, o forse un’altra, non ricordo.
Insomma un repertorio scarnissimo che non poteva portarci da nessuna parte al di fuori della stanza. Eppure ci trovavamo lì. E ci divertivamo come pazzi.
Ovviamente il trio chitarra-basso-batteria si estese lentamente. Nessuno era capace di cantare, né tantomento voleva cimentarsi, quindi dovevamo trovare un vocalist. C’era bisogno di un soggetto sufficientemente pazzo da spaziare da Talkin Heads ai Dead Kennedys. Ovviamente uno così c’era: Fabrizio suonava le congas ed era sufficientemente folle da cantare in un inglese assolutamente improvvisato ma efficace. Era dei nostri!
Poi i riff di chitarra. Io riuscivo sì e no a tenere il tempo e quindi a fare la ritmica. Gli assoli non li sopportavo, li facevo solo a casa, imitando Ivan Graziani e con un sottofondo musicale adatto. Assieme agli altri non mi venivano proprio, perdevo il tempo, non conoscevo le scale ecc. C’era bisogno di un chitarrista al quale piaceva essere protagonista. Ovviamente c’era anche lui. Gianluca S. fu presto dei nostri. Avevo una Eko che a me non piaceva affatto, ma lui la suonava bene, con uno stile tutto suo, che si riconosceva subito. Neppure lui era un “grande chitarrista” (ce n’erano un paio di “grandi chitarristi” da quelle parti, che quando suonavamo noi se ne andavano con aria abbastanza schifata), ma per noi era grandissimo.
La formazione dei Black Lizard è importante perché da quella nasceranno i gruppi che animeranno la “scena” falconarese degli anni Ottanta. Infatti: Giulio e Fabrizio fonderanno gli Ashill Forrest, gruppo fusion di gente che sapeva suonare; Gianluca S. fonderà gli Spasmi, new wave tipo Ultravox ma soprattutto Simple Minds e Depeche Mode; io e Marco fondammo gli Azione Non Violenta, ma non subito.
Si deve prima passare per un’altra storia.

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