martedì 21 agosto 2007

Verso il punk - via Rimini

Il punk stava progressivamente entrando nella mia vita, attraverso canali inconsueti, da solitario quale ero e da residente nella provincia della provincia. Con un amico di scuola, Maurizio A., andavamo a rifornirci di dischi alla Dimar di Rimini, che vendeva anche per corrispondenza. Lì potevo trovare parecchi dischi punk, la maggior parte d’importazione.

Ricordo ancora i nostri viaggi in treno per arrivare al negozio di dischi. Maurizio suonava la fisarmonica in un’orchestra di liscio tra le più conosciute della zona, ma alla Dimar veniva a comprare dischi di classica, di jazz, di grandi vocalist soul. Era anche un appassionato di elettronica e suonava la tastiera molto bene. Leggeva tutti i giorni La Gazzetta dello Sport, dalla prima all’ultima riga. Giocavamo a tennis assieme, l’ultimo sport che praticherò nella mia vita.
Insomma, arrivare a Rimini, fare il tragitto fino al negozio di dischi, entrare lì dentro, era una sorta di rituale che ci concedevamo due-tre volte l’anno. Il reparto di musica punk era dentro il più ampio reparto rock al secondo piano però, con mio stupore, aveva una sezione dedicata. Due contenitori pieni di LP (siamo sempre all’epoca del vinile).
Il catalogo che arrivava a casa era meno ricco, ma c’era spesso qualcosa di interessante. Lì ho comprato oltre ai Sex Pistols e ai Clash anche i Sham 69, gli Angelic Upstarts e gli Exploited, ma pure Dead Kennedys, Black Flag, Discharge, Crass, Poison Girls, Flux of Pink Indians e molto altro ancora.


In quegli anni vennero proiettati anche dei film sul punk, al cinema di Chiaravalle. C'era Rude Boy dei Clash, The Great Rock 'n' Roll Swindle dei Pistols, Rock 'n' Roll High School con i Ramones e un paio di altri che non ricordo. Eravamo in cinque-sei agli spettacoli pomeridiani. Praticamente unmento, per il gestore...

Mi ricordo ancora la mia prima spilletta, rettangolare, di ferro, comprata per corrispondenza, dei Sex Pistols. La portavo su un impermeabile alla Bogart chiaro, con il bavero largo tipicamente anni ’70. Erano i miei primi passi verso una realtà che conoscevo poco ma che mi affascinava, fatta di rifiuto della società, delle convenzioni, della politica istituzionale, della musica istituzionale, dell’idea di “normalità”.
Sempre per corrispondenza comprai una maglietta dei Crass, bianca con la scritta rossa, la grande A cerchiata e il mitra spezzato.

La mia chitarra suonava sempre più distorta, abbandonando definitivamente il tentativo di destreggiarmo in arpeggi e virtuosismi solistici.
Leggevo il manifesto, che all’epoca per quattro pagine si faceva pagare 1000 lire! Leggevo A. Rivista anarchica e cominciavo a capire qualcosa di più sull’anarchia e sul pacifismo, di cui sentivo parlare nella musica che ascoltavo.
Cominciavo a vestirmi solo di nero. Avevo un trench che era di mio nonno, o di mio zio, che mi piaceva da morire. Tutto dritto con il bavero piccolo, anni ’50-’60. Lì sopra appuntavo la mia spilla. Avevo un lucchetto nel passante dei pantaloni e una cinta bullonata fatta in casa. La fatica per trovare le borchie in vendita e per inserirle in una vecchia cinta di cuoio nero che portavo rigorosamente bassa, sui fianchi. Portavo un foulard a fantasia bianco e nero sul passante destro dei pantaloni che penzolava giù lungo la coscia. Pantaloni strettissimi, ovviamente neri, con le cerniere in fondo.
Non ero ancora riuscito a trovare un chiodo (il giubbotto nero da motociclista portato alla notorietà da Marlon Brando ne Il ribelle). Quando era più freddo indossavo l’eskimo verde. Mio padre ce li aveva dal lavoro, toglievo la scritta della grossa azienda per la quale lavorava come operaio e lo mettevo io, con sopra le mie spille. I guanti avevano sempre le dita tagliate.
I capelli. Dovevano stare dritti. Ma come si faceva se ancora non c’era il gel?
Cotonandoli con il phon se erano lunghi, oppure con la saponetta, sfregandoli e irrigidendoli, o con la lacca della mamma, salvo uscire di casa lasciando una scia di parrucchieria da vecchia signora.
Capivo che intorno a me c’era fermento. Ricordo un concerto degli SWBZ di Ancona tenutosi nei locali dell’ex-manicomio al quale ero andato… con i miei genitori che mi aspettavano fuori (avevo credo quindici anni, non avevo ovviamente la patente, non avevo il motorino, non avevo amici più grandi, non c’era un autobus che poteva portarmici, era notte…)!
Poi uscì un libro Province del Rock ‘n’ Roll, che perlava oltre che degli SWBZ, dei Papers Gang e altri marchigiani che suonavano qualcosa che forse era già post-punk… Boh!
Certo è che essere punk a Falconara Marittima, provincia di Ancona, nelle Marche, era proprio un bel problema. Non c’era Internet, non c’erano i cellulari.
Praticamente, intorno era tutta campagna!

1 commento:

Antidoto ha detto...

come ti capisco... ankio sn di falconara... :(
ciau ciau